Carolina e Rino. Stessi colori, stessa passione.

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Ognuno ha i suoi luoghi del cuore. Il mio, uno dei miei, è Milanello. Ritorno con la memoria a quel 17 marzo 2003, quando per la prima volta ne ho solcato il cancello. Non riesco ancora a dominare l’emozione, nemmeno ora, dopo 15 anni. Ogni volta devo cercare di controllare i battiti del mio cuore. In fondo dopo tanti anni, sembra ingiustificata l’emozione puerile di entrare in quello che, per molti ancora oggi, è un luogo al pari del mistico. Mercoledì sera la partita a S.Siro, contro quel Genoa che sembrava potesse addirittura far bottino. Un tocco sciagurato che fa capitolare nella nostra rete un pallone stregato. “Cavoli – dico al mio vicino di postazione – qui ci vorrebbe proprio il gol di Romagnoli, così il Capitano si toglie i fantasmi dal cuore”. E quando ormai la gente cominciava ad abbandonare gli spalti, ecco che accade ciò che ormai non ti aspetti più: Romagnoli porta in vantaggio il Diavolo, per l’apoteosi finale, per quella scarica di adrenalina che ancora sento scorrere nelle vene. Il Milan vince, Gattuso in conferenza post gara, trasuda emozione e passione in ogni sua parola. In troppi, forse, parlano di lui ancora al trapassato remoto, tornando ai tempi di quando, quel campo, lo calcava davvero. Ora si limita a percorrere un numero infinito di volte l’area tecnica, rincorrendo poi i suoi ragazzi a fine gara per un abbraccio, una pacca sul collo, un sorriso.

Dopo l’emozione, oggi il mio calcio mi dà nuovamente tregua e allora visti gli orari della conferenza, mi metto in macchina sotto la pioggia battente. Devo tornare a Milanello, voglio sentire ancora le parole di Rino. Ma non solo. Mi comunicano che dopo di lui parlerà anche Carolina Morace, il tecnico della nostra squadra femminile. Nostra: certo, perchè il rosso e il nero sono i miei colori, in qualsiasi declinazione. E la mente torna immediatamente a una trentina di anni fa, quando la Morace calcava come una tigre i campi più o meno verdi, sui quali andavano in scena i campionati femminili. Non c’era la tecnologia di oggi, le sue prodezze arrivavano a noi, che giocavamo o che eravamo in procinto di poter essere iniziate a questo sport, con il contagocce. La maggior parte delle notizie erano racconti, qualche articolo sui giornali locali. Poco altro. Poca mediaticità, tanta passione. Ma la sua grinta, la sua tenacia, la sua grande passione e il suo inimitabile modo di giocare e dominare il campo, il suo essere attaccante vera, con il club o con la maglia della nostra Nazionale, quei racconti raggiungevano anche gli spogliatoi di periferia e di certo, il suo nome lo conoscevamo tutte. Erano i tempi del Verona, del Tavagnacco, della Torres, realtà che dominavano in lungo e in largo il panorama rosa del calcio.

E così oggi arrivo a quel cancello, consapevole di poter addirittura parlare con uno dei miei miti di ragazza. Carolina l’ho incrociata altre volte, sempre in tribune di stadi calcati non più da calciatrice, ma da tecnico o inviata. L’ultima volta la ricordo benissimo. Pochi mesi fa, a Novara, durante la finale scudetto tra Juventus e Brescia. Era in cabina tv, la osservavo dalla mia postazione, senza avere il coraggio di aprire quella porta per farle anche solo un saluto. Sono fatta così, io. Vivo con molta emozione e rispetto ciò che mi circonda. Non mi piace invadere in modo dirompente lo spazio altrui. Soprattutto lo spazio sacro di persone che sono note e che suscitano in me una sorta di rispetto e sacro timore. Come se, toccando il mito, questo potesse scomparire. Insomma, oggi con quel microfono in mano mi sono anche dilungata oltremodo (scusatemi) nel cercare di esprimere un concetto e di portare la domanda su binari consoni alla grande sfida di domani. Allo stadio Ossola di Varese, che un un po’ mio lo sento ancora, va in scena Milan- Juventus. Un’occasione importante per questo calcio rosa che, rispetto a quello che si segue in altre parti di Europa, deve colmare un gap lungo almeno dieci anni. Eppure per la prima volta, dopo anni di tentativi, credo che siamo sulla strada giusta. Forse, anche, sta passando di moda l’idea di dover per forza paragonare il calcio delle Ladies con quello prettamente Maschile. L’errore più grande fatto fino ad ora. Il termine di paragone del nuovo calcio femminile, sotto l’egida della FIGC, non può e non deve essere l’omologo maschile. Altrimenti la battaglia è persa in partenza. Ma mi si consenta: dopo una breve chiacchierata con quella che è stata una delle calciatrici più rappresentative di questo movimento, su una cosa siamo d’accordo. Una cosa che però accomuna i due mondi: il calcio è diventato tutto tecnica e prestanza o preparazione fisica. Manca quel sacro ardore, quella fame di dimostrare il proprio valore, quel “ringhio” di orgoglio di fronte al pallone. Eppure proprio queste cose accomunano i due tecnici che si sono confrontati oggi. Rino e Carolina: allenatori di un calcio moderno, diverso sicuramente da quello che hanno giocato loro, con in comune la grande tenacia, la grande voglia, gli occhi della tigre di fronte all’avversario. Che poi, se mentre parlano li guardate negli occhi, la vedrete anche voi quella luce sfavillante. Quella luce che delinea la via da seguire, che può riportare un po’ di passione ad un calcio che, già privo di bandiere, potrebbe così ritrovare quei sani valori, quella competizione raccontata ormai quasi solo nelle pagine di biografie più o meno impolverate, ma che però infiammano ancora i nostri animi e ci regalano il ricordo di un’emozione profonda.

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